Che quel giorno qualche stupefacente diavoleria fosse stata vaporizzata nell’aria umida e fiorita di quella città, fu evidente fin dal mattino, quando al Rijksmuseum difronte al “Ritratto di uomo in abiti orientali” di Rembrandt, scoppiò improvvisamente in lacrime. E neanche si limitò, come sarebbe convenuto a quell’ambiente di mistica contemplazione, ad uno di quei pianti silenziosi e compiti di chi si commuove difronte all’arte per la troppa emozione provocata dalla bellezza. Macché! Fu il suo un singhiozzare poco garbato e patetico, noncurante di chi la osservava con compassione e sospetto al contempo, che finì con scioglierle tutto il trucco, facendola somigliare ad una maschera grottesca.
Una scena dannatamente pietosa.
Recuperata poi una parvenza di contegno, si staccò da quel capo avvolto in un turbante e da quegli occhi che l’avevano affondata perché compresa in maniera definitiva e continuò a girovagare per quel grande edificio saltellando di quadro in quadro, finché giunta in una nuova sala e guardandosi intorno si arrestò nuovamente per via di quella vibrazione nota che le annunciava in maniera incontrovertibile la presenza di una connessione.
Si trovava difronte ad una serie di nature morte, genere che normalmente non era fra i suoi prediletti e a cui riservava, se non una completa indifferenza, poco di più che un credito sbadato.
Quel giorno tuttavia, grazie a quei dipinti ossimorici e sospesi nel tempo, tutti i suoi pregiudizi manichei furono vittime di una nemesi fatale e si elevò, una volta tanto, su un piano di pura e benedetta osservazione alchemica.
E non affogò affatto in un bicchiere d’acqua, ma ci sguazzò dentro, nuotando con ampie bracciate perché quelle che vedeva ovunque erano niente meno che immagini specchiate di quell’oggetto che in un giorno glaciale d’inverno ai piedi dei monti, un simpatico beone in veste color lavanda le porse beffardo. In un altro museo.
Peter Claesz (Berchem 1596/97 – Haarlem 1661) fu uno dei maggiori pittori olandesi del XVII Secolo, specializzato nella realizzazione di nature morte che, insieme ad altre maestranze attive in quell’area geografica e in quel periodo, sviluppò il concetto di “still-leven” dando ad esso una tensione alla ricerca della perfezione formale, di grandezza del quotidiano, che ha pochi uguali nella storia dell’arte.
L’indagine sulle minuzie e sui dettagli degli oggetti rappresentati, spesso relativi alla mise en place di eleganti e aristocratiche tavole imbandite diventa altissima, trascendentale, eterna, sublimando la stoviglieria, la posateria, i tessuti, i cristalli, le varie suppellettili e i cibi in una condizione atemporale ed immobile, afferente solo alla bellezza concettuale.
I toni di colore utilizzati, soprattutto nelle opere più tarde, tendono ad un monocromatismo affettato ed incantevole, capace di permeare l’insieme degli oggetti raffigurati in maniera armonica ed accorta, mai casuale, di un potente magnetismo.
Al Rijksmuseum sono conservati ed esposti quattro suoi dipinti, dalla cui osservazione non si può non rilevare come il fil rouge sia rappresentato dalla raffigurazione di un oggetto particolare, raffinato e fragilissimo, sofisticato eppure quotidiano nella sua destinazione d’uso, capace data la sua trasparenza di essere attraversato dalla luce e di rifletterla poeticamente nei colori della bevanda, presumibilmente vino bianco, in esso contenuta: il bicchiere Roemer.
Si trattava di un elegante bicchiere, di norma di colore verde, molto popolare e diffuso a partire dal XVI secolo soprattutto in Renania e nei Paesi Bassi. La base cava veniva costituita arrotolando fili di vetro fuso attorno ad un forma conica, lo stelo era largo e tempestato di occhiellature o di bolle per garantirne una presa sicura, mentre la pancia era piuttosto variabile nella forma, con una predilezione tuttavia per una certa rotondità accogliente.
CONNESSIONE
V. Se potessi prendere qualcosa da questo dipinto, cosa sceglieresti? La prima cosa al volo, senza pensarci.
G. Il cappello con la piuma. Te?
V. Il bicchiere Roemer.
G. Hm.
V. Quel giorno d’inverno, in quella mostra, quando ce lo trovammo davanti, te lo ricordi?
G. Altroché! Con quella faccia rubizza e il triplo mento! E mi ricordo anche cosa facemmo appena fuori da quel fortilizio…
V. Le nostre non sono mai scelte casuali, anche quando sembra che lo siano.
G. … io misi il cappello per il gran freddo e perché nevicava, tu volesti per forza fermarti lungo la strada a comprare quel vino… com’è che si chiamava?
V. Chaudelune, un vin de glace. Fu in effetti un giorno di congelata e pensosa solitudine.
G. Solitudine un accidente! C’ero io con te!
V. Hai ragione. C’eri tu ed eri sufficiente.
Vanessa Gabelli
febbraio 2017
Didascalia immagini
1. Rembrandt Harmensz. van Rijn, Uomo in abiti orientali, 1635, Amsterdam, Rijksmuseum
2. Pieter Claesz, Natura morta con pasticcio di tacchino, 1627, Amsterdam, Rijksmuseum
3. Pieter Claesz, Natura morta con pesce, 1647, Amsterdam, Rijksmuseum
4. Pieter Claesz, Vanitas Natura morta con Spinario, 1628, Amsterdam, Rijksmuseum
5. Pieter Claesz, Natura morta con sale, c. 1640 – c. 1645, Amsterdam, Rijksmuseum
6. Frans van Mieris il Vecchio, Autoritratto come allegro beone, 1673, Vienna, Hohenbuchau Collection, in prestito permanente dalle Collezioni del Principe del Liechtenstein
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