Ho recentemente visitato un territorio magnifico, a tratti misterioso, che si chiama Beaujolais. Ha provato a scacciarci, a metterci in fuga, con un temporale ininterrotto di quasi due giorni. Ma questa pioggia incessante, che ci ha sicuramente un po’ incupiti, non ci ha scoraggiato. Come non si sono scoraggiati i vignaioli locali nonostante la loro storia lunga e “travagliata”.
Il racconto nasce negli anni ’40, in particolare con le annate 1945 e 1947 che, caratterizzate da caldo intenso, donarono uve molto mature e conseguente maggiore gradazione alcolica. Grande fu il successo sul mercato di questi prodotti “anomali” per il beaujolais che aveva da sempre abituato il mondo a vini molto più leggeri. Sulla scia di questo trionfo i produttori decisero di puntare su gradazioni alcoliche sempre maggiori (ricorrendo spesso e volentieri alla pratica dello zuccheraggio dei mosti ovvero alla chaptalisation) per ottenere vini pieni e (con)piacenti al(la) clientela. E fu così che lo spirito del Beaujolais venne tradito per la prima volta. Il secondo colpo fu inflitto (qui come in altre zone…) a partire dagli anni ’70 dalla comparsa e massiva diffusione dei prodotti chimici di sintesi come fertilizzanti, diserbanti, pesticidi ed antiparassitari. Come conseguenza le terre e i loro frutti furono impoveriti. Come se non bastasse, il tradizionale alberello (necessario per contenere le rese del Gamay) fu abbandonato in molte zone in favore di sistemi di allevamento più redditizi con il conseguente aumento delle rese e peggioramento della qualità delle vendemmie.
Ulteriore danno venne dalla creazione del “Beaujolais Nouveau” che diede il via alla commercializzazione di vini di bassa qualità, con residuo zuccherino palpabile e sentore omologante di banana. Ed arriviamo fino ai nostri giorni con la recente crisi economica che ha portato all’abbandono di numerose vigne persino nei territori dei cru più vocati.
Da queste poche righe tutto sembra ormai perduto, ma tranquilli non è così.
Fortunatamente già nei primi anni ’80 si posero le basi per la rinascita di questa denominazione grazie ad un manipolo di giovani produttori locali (Marcel Lapierre, Max Breton, Jean Foillard, Jean Thèvenet e Joseph Chamonard) che decisero di invertire la rotta poichè “non riuscivano più a bere il loro vino”. Perché il punto in Beaujolais è proprio questo: il vino lo producono per berselo. I vignerons che oggi fanno qualità, con basse rese, niente chimica nè in vigna nè in cantina, nessun lievito selezionato, lo fanno per loro stessi. Non lo fanno per seguire il vezzo del consumatore contemporaneo, lo fanno perché i primi a fruire del lavoro del vigneto e della cantina sono loro stessi e le loro famiglie. Non lo fanno per seguire critici e critiche, lo fanno per se stessi. Il vino qui è ancora alimento come nelle nostre campagne del dopoguerra. È parte integrante del tessuto sociale, tutti (o quasi…) nel caffe del paese hanno in mano un calice di Fleurie. Tutto questo lo si può leggere negli occhi di questi produttori nel momento in cui stappano le bottiglie. Il mitico ed ancestrale “poff” illumina gli occhi di padri e figli e permette al buon umore di dilagare nonostante la pioggia, stile diluvio universale, batta senza sosta sulle lamiere che fanno da tetto alla cantina. Si avete letto bene, scordatevi gli ecomostri langaroli, le sale degustazioni museali toscane o pavimenti stile disco anni ’60 dei Frere Gros a Vosne.
In Beaujolais non si respira aria di campagna vera, si è nella campagna vera. Incredibile per me cittadino urbano. Entrando in azienda potreste infatti incontrare asini che brucano(?!) in vigna e dovrete stare attenti a non investire le galline che scorrazzano libere per il cortile.
Le zone destinate alla vinificazione sembrano il rifugio di un rigattiere con reti di materassi accatastati, vecchie sedie e sportelli di automobili. Potrei testimoniare davanti al Grand Jury di aver visto un bel divano da tre sedute comodamente appoggiato sopra le vasche di cemento. La stessa autenticità, spontaneità e nuda e cruda verità la potrete ritrovare nei bicchieri. Sono vini che non ti lasciano tregua, non ti fanno riposare un secondo. La fine carbonica che si sente qua e là ti tiene sempre sveglio e sull’attenti nonostante sia il 70esimo assaggio della giornata. Nei nasi si passa dal verde intenso al piccolo frutto scuro, poi d’un tratto all’agrume. In bocca viaggiano spesso speculari sempre fruttosi e croccanti. Asciugano e salano la lingua. Il bicchiere chiama il successivo, e poi ancora quello dopo. E poi una bottiglia chiama la successiva, e la bottiglia dopo chiama la magnum e via a seguire fino ai formati biblici. Non devono però esser scambiati per vini semplici o non inducenti la ricerca, anzi il ventaglio olfattivo è spesso molto ampio e le bocche profonde trasmettono grande complessità.
Non saprei dirvi qual è stato l’assaggio migliore, il produttore che mi ha dato di più o dov’è stata l’emozione più forte per cui vi descrivo qualche bicchieri in ordine sparso:
Morgon 1998 – Domaine J. Chamonard
Passato di verdure e zafferano. Fumè e spezia. Animalesco e fresco. Verde scuro con tratti di foglia appassita. Succoso.
Morgon Còte du Py 2013 – Jean Foillard
Naso con 1/3 di frutto nero, 1/3 d’arancia e 1/3 di spezia. Bocca esplosiva, pirica e minerale con a tratti la sanguinella. Lascia sul finale qualcosa che ricorda la Chartreuse. Poi vira di colpo sull’esotico.
Morgon Còte du Py 2010 – Jean Foillard
Arancia a mille, pirico e minerale. Più invecchia e più migliora. In bocca sale e rosmarino. Poi la pietra bianca bagnata. Mediterraneo. Sembra un vino fatto sulla costa. Incredibile. Bocca esplosiva ed “ancora indietro”, sembra imbottigliato ieri.
Morgon Còte du Py 2002 – Marcel Lapierre
Verde, speziato e sanguigno. Poi ecco l’arancia rossa e la polvere da sparo. In bocca croccante, fresco e speziato. Un succo che non si riesce a smettere di desiderare. Ristoratore.
Morgon Còte du py 2015 Vieilles Vignes – Damien Coquelet
Pirico, a tratti quasi cinereo e nel contempo elegantissimo. In bocca non tradisce le aspettative: bagna e asciuga. La vena salina aumenta la salivazione a dismisura. Da mordere.
Fleurie Cuvèe Vieilles Vignes, Lieu-dit Champagne 2013- Jean Louis Dutraive
Il dominio assoluto dell’arancia. Sotto di essa le spezie popolano il calice. Aranciato anche in bocca, chiude col chinotto. Bicchiere chiama bicchiere.
Fleurie La Madone 2008- Domaine de Prion
Apre nota verde appassita, quasi da passato di verdura. L’arancia è presente e scura. Bocca con attacco citrico, che nonostante la nota scura al naso, esplode e si rivela più verde che mai.
Moulin à Vent 2012 Cuvèe Vieilles Vignes– Domaine de Prion
Molto tamarro in apertura con spezia e legno verdi. In bocca è giocato un filo più sul frutto. Succosissimo, non si può far altro che masticare.
Per me oggi beaujolais rappresenta l’America precoloniale, l’ultimo scampolo d’Amazonia, un paradiso incontaminato: l’isola che non c’è. Con tutto me stesso spero che tale rimanga per lungo tempo, non facendosi contaminare (nuovamente) da mercati, critici e consumatori.
Briss
Closing credits:
Un grande grazie va a Guido Galli, che leggendo queste righe sorriderà sapendo che la mia Beaujolizzazione (di cui tra l’altro è sommo artefice) è ormai completata.
Per approfondire l’argomento si raccomanda, ai più volenterosi, la lettura di “Vino (al) Naturale” di Alice Feiring: un libro che non tratta nello specifico il Beaujolais ma in realtà parla solo di Beaujolais.
Spero di poter assaggiare questo Champagne del 2013 di Dutraive a Natale , suona bene !
Thanks to you for reading