Roma è in fiamme là fuori. Da un finestrone osserva come l’asfalto rovente, calpestato dai piedi sudati di milioni di turisti, emani ondate di calore che muovono l’aria e la rendono traslucida, come se tutta quella gente camminasse in un limbo di irrealtà materica, sospeso tra la città eterna e l’inferno.
Dentro al museo è insperatamente sola, completamente congelata. Un foulard chiaro tessuto in fibra di bambù le avvolge il collo, è fasciata in un soprabito leggero di taglio sartoriale, che tuttavia le lascia scoperte quelle gambe sfrontate e nude che i cortissimi shorts non celano e che in preda ad una piloerezione inevitabile, in linea con le sue migliori masturbazioni cerebrali, si muovono toniche e decise sala dopo sala. L’impianto di condizionamento è spinto ai massimi livelli. Intenta a schivare con anguilliforme perizia le ondate di freddo sputate fuori dalle unità interne come soffi malevoli in mezzo alla bellezza, d’un tratto le pare che il gelo si faccia più intenso.
Difronte a lei è raffigurata una donna. È nuda, profilata in maniera netta, arcaica, cinereo, quasi affumicato, il colore della pelle, le sue forme piene abbandonate su un drappo chiaro, ma plasticamente fuligginoso anch’esso. Osserva implacabile un vaso investito da una luce tagliente, la stessa che illumina una piccola divinità statuaria, posta entro una nicchia sulla parete di fondo che si apre nell’unico squarcio rassicurante, quello di un cielo azzurro, rischiarato lontanissimamente. Pandora. Il vaso. Vecchiaia, pazzia, vizio, gelosia, malattia. Tutto lì dentro, tutto a portata di mano. Quegli occhi spiritati. Forse lo ha già aperto e osserva con sgomento il vuoto generatore del caos.
Fuori dal quadro, arretra e in preda ad un tremore insano, cerca l’appoggio al piedistallo che regge una scultura di Martini, avendo cura, come sempre, di non toccare l’opera.
“Va tutto bene signora?”.
Sobbalza alla domanda del custode. Non si era neanche accorta che ci fosse.
“Mi sembra molto pallida. Vuole sedersi?”.
Si riscuote in fretta, mentre si dissolvono in un soffio di tramontana gli spiriti malevoli, si stringe addosso il corto soprabito e strofinatesi le braccia con vigore erculeo lo rassicura, lamentando solo un freddo diabolico per via dell’aria condizionata e gli chiede semmai se se ne può diminuire la potenza insalubre.
“Mi dispiace. L’impianto è centralizzato e programmato perché le belle donne vengano ibernate senza possibilità di scampo.”
Compiaciuto, le strappa un sorriso e torna a sedersi sornione presso il suo avamposto.
Pandora non si è mossa. Il vaso è sempre lì.
Preferisce pensare che sia ancora chiuso e che il danno sia ancora da farsi, quando, voltandosi, finalmente vede lui. Il sentore del disastro ha attratto magneticamente la sua attenzione, tanto da essergli passata di fianco, strisciandolo, ignorandolo, neanche percependolo, come ha fatto con il custode.
Siede solo e grigio ad un tavolino senza profondità, in barba alle regole prospettiche, con la sola compagnia di una bottiglia e di un bicchiere, il bevitore.
Ha fattezze innaturali di manichino, volumico come un poliedro regolare da cui spuntano due manine simili a quelle dei buffi omini di un noto marchio di giochi per bimbi. Non sembra fatto di carne, solo materia dura scolpita, ora non più scalfibile, intento a presenziare una solitudine svelata.
In tutto quel grigiore, la delicata finezza del modesto arabesco blu cobalto sulla spoglia parete bianca, le stringe il cuore dalla commozione. Le pare di averlo già visto quel motivo in un altro dipinto di Sironi, ma non le viene in mente quale, né quando, né dove lo ha visto.
Si concentra ancora sul di lui e pensa sia proprio bello da guardare quel suo bevitore, lo riconosce nel profilo greco, nella massa che con orgoglio mascolino occupa gran parte dello spazio sulla tela, lo riconosce nel completo grigio industriale illuminato solo dalla macchia bianca della camicia dal taglio coreano, lo riconosce negli occhi fissati in una vacuità pensosa.
Lo riconosce in quella bottiglia anonima, etichettata di bianco, mascherata così da tutte le bevande possibili, ché tanto lui è il bevitore e non importa cosa beve, ma che beva.
Gli strizza un occhio, gira i tacchi e lo lascia lì, solo ed immenso.
Il custode ha aperto un finestrone e da fuori entra una ventata di aria infuocata.
Mario Sironi (Sassari 1885 – Milano 1961) pittore, decoratore, illustratore, critico d’arte, è stato uno delle figure più interessanti ed originali del Ventesimo secolo.
Dopo una prima formazione romana presso la Scuola Libera del Nudo, dove conobbe Balla e Boccioni, viaggiò a Parigi ed in Germania per approfondire l’esperienza cubista e fauve, aderì poi al movimento futurista di cui contribuì ad esaltarne il progetto, firmando nel 1920 “Contro tutti i ritorni in pittura. Manifesto futurista.” Sono quelli gli anni in cui sposò le istanze culturali del regime fascista, divenendone in seguito uno dei suoi più rappresentativi interpreti, elaborando un linguaggio che tendesse ad esaltare i valori dell’uomo come essere monumentale, del lavoro nella sua dimensione evocativa e lirica, con una costruzione arcaicizzante ed eroica dell’immagine, priva di qualsiasi forma di decorativismo, convinto della funzione principalmente didascalica dell’arte ed etica dell’artista.
Ci sono voluti decenni per sdoganarlo da un’etichetta meramente politica e valutare la sua opera al di là considerazioni propagandistiche.
Decenni evaporati perché la critica rivalutasse la grandezza della capacità di sintesi di Mario Sironi, della sua arte asciutta e tesa, quella grandezza che gli riconoscevano i suoi contemporanei, grandi altrettanto – “avete un grande Artista, forse il più grande del momento e non ve ne rendete conto” (Pablo Picasso) – quella grandezza che consentì a Gianni Rodari, partigiano nella brigata che lo aveva fermato in fuga dopo la disfatta fascista, di riconoscerlo e di salvarlo da fucilazione certa.
Perché se anche la storia la fanno i vincitori, la voce dei vinti, quando ha qualcosa di importante da dire, rimane nel vento e ritorna paziente cantando insieme alla fredda tramontana.
Roma, Galleria d’Arte Moderna, 08 giugno 2017
“Stanze d’artista. Capolavori del ‘900 italiano”
Mario Sironi, Pandora, 1924, Olio su tela, Svizzera, Collezione privata
Mario Sironi, Il Bevitore, 1924, Olio su tela, Svizzera, Collezione privata