“Ohibò! Ma quello è un asparago! Domani scrivo ad Ale e gli chiedo che vino ci abbinerebbe…”
Non è insolito che le mostre allestite a Palazzo Reale a Milano siano per me foriere di tuffi emozionali inaspettati e turbinosi.
Oggi, in visita a quella dedicata a “Manet e la Parigi Moderna”, un quadretto dalle dimensioni ridicole raffigurante un asparago, per lo più ignorato dai visitatori, solitario in una dignità apparentemente incompresa, o comunque ritenuta di scarso interesse, mi ha inchiodata davanti a sé per un tempo imprecisato, dilatato in un rocambolesco salto metafisico di cui anche Carrol sarebbe stato fiero, stampandomi in faccia un sorriso ebete e suscitandomi una meditata, ma certo non meno strampalata, elucubrazione.
Èduard Manet dipinse questo piccoletto, oggi conservato al Musée d’Orsay a Parigi, nel 1880 per Charles Ephrussi, critico e collezionista d’arte, il quale aveva acquistato dall’artista un’altra tela, il “mazzo di asparagi” (ora a Colonia, Wallraf-Richartz Museum), al prezzo di ottocento franchi, ma volendogliene comunque corrispondere mille.
Manet accettò i duecento franchi in surplus ma pensò di ringraziare Ephrussi alla sua maniera e dipinse un asparago solo che inviò all’acquirente accompagnandolo da un biglietto dove diceva: “Il en manquait une à votre botte”.
Ne mancava uno.
Mancava proprio questo qui solo e disteso sul marmo bianco del tavolo dove prima erano stati poggiati i compagni, tenuti insieme da due sottili giunchi.
Solo, senza l’appoggio morbido della cicoria che aveva reso meno asettica la posa degli altri.
Solo, privo del fondale scuro concesso al gruppo, in nome della più elegante tradizione iconografica delle nature morte fiamminghe, ma camaleonticamente fuso con il cromatismo chiaro del marmo, non temendo tuttavia di uniformarsi ad esso perché consapevole della sua definizione identitaria.
Solo, la testa girata dalla parte opposta rispetto agli altri e il gambo reciso sospeso nel vuoto, fuori dal bordo del tavolo, come se il taglio dovesse attingere sostanza nell’inconsistenza aerea.
Sono davanti a lui da pochi minuti o forse da un tempo espanso, sfuggente ad ogni percezione reale, e mi chiedo perché proprio un asparago mi tenga qui, più di quanto non facciano altre opere di dimensioni più grandi, più citate nei libri che ho studiato, più altisonanti per la critica d’arte, più note in generale e difronte alle quali si soffermano le guide con in scia il loro nugolo di audioguide passeggianti.
Ho come l’impressione che una connessione stia tentando di fare capolino dai rovi che circondano i miei ricordi, ma è come se avesse bisogno di luce solare per uscirne fuori ed io sono al chiuso dentro un museo con l’innaturale aria condizionata a bloccare il flusso ascensionale dei miei pensieri. Di fianco al mio asparago bello, una serie di nature morte con fiori recisi, opera dello stesso Manet, di Fantin-Lotour, di Renoir, fiori dentro bicchieri o vasi di umile fattura, fiori incartati in fogli di carta.
L’asparago, i fiori, i fogli di giornale.
Ed ecco che d’improvviso il sorriso beota si trasforma in radiosa e decisa consapevolezza, perché la mia connessione si è materializzata e i suoi contorni brillano di un nitore inconfondibile.
Nei mesi di marzo e aprile, sui monti della Calvana, molti si mettono in cammino alla ricerca degli asparagi selvatici. Tra questi c’è un uomo, di cui io condivido il cognome, che indossati abiti lisi atti a quell’uso specifico e l’immancabile berretto, con in spalla uno zaino vuoto ed in tasca un coltello, si arrampica sui sentieri che dipartono sopra la vecchia cava abbandonata e inizia la sua caccia al tesoro con imprevedibili incursioni nelle macchie di rovi e di ginestre, ché proprio lì, se hai coraggio e fierezza sufficienti per arrivarci, spuntano alte e bellissime le teste degli asparagi. Li recide con maestria e sapienza d’altri tempi, permettendo così alla pianta di partorirne ancora e ancora, perché la loro rinascita costituisca un nuovo tesoro per altri o forse anche per se stesso, in caso di nuovi passaggi su quei sentieri impervi. Ne coglie uno, un altro e poi un altro e un altro ancora, finché non forma dei mazzi, che chiude legandoli con due rami di ginestra e che mette delicatamente nello zaino, incartandoli in fogli di giornale, come meravigliosi bouquet fioriti degni di Olympia.
Quando ritiene che il bottino sia soddisfacente, si asciuga il sudore, conta i graffi che si è procurato sulle braccia, guarda in basso la piana e laggiù in lontananza il profilo inconfondibile della cupola di Filippo, sistema il berretto e decide che può tornare a casa e con passi sicuri di chi conosce il terreno intraprende la discesa cogliendo qua e là qualche fiore selvatico da portare in dono alla moglie, facendone un mazzetto modesto ma carico d’amore.
“Devo assolutamente scrivere ad Ale e chiedergli quale vino abbinerebbe agli asparagi…”
Prato, 24 giugno 2017