Quella casa costruita da Ferdinando I de’Medici -figlio di Cosimo- dove vi facevano base i guardaboschi, con ampio spazio per l’abbeveramento dei cavalli. Una vera e propria villa di caccia, all’interno della riserva di caccia dei Medici, quest’ ultima delimitata da un muro denominato “il muro del barco”, da dove vi prende il nome proprio il vino della zona: il Barco Reale.
Carmignano.
Uno dei pochi paesaggi vitivinicoli toscani rimasti come nel ‘500, dove l’uomo è intervenuto poco. Piccoli poderi con appezzamento annesso, vigne minuscole sparse nel bosco; ed è proprio il bosco a dominare la scena, per fortuna dico io.
Un’area che al tempo dei Medici era al limite del militaresco, con appostamenti in cima al monte, precisamente a Pietramarina, dove vi era una costruzione “il casino dei virri”, sbirri appunto, a sottolineare come quest’area fu militarizzata e controllata al millimetro.
La famiglia de’Medici nella metà del ‘700 cessò, in quanto i tre figli di Cosimo III non ebbero seguito generazionale; al loro posto susseguì un certo Giangastone, parente di origine Austriaca della famiglia Asburgo Lorena. Quest’ultimi, provenendo da una zona piena di boschi, non frequentando quasi mai questa riserva di caccia, si trovarono costretti a vendere, e vendettero ad una famiglia pratese, i Banci, i quali costruirono la casa così come la vediamo oggi, siamo intorno alla fine del ‘700 inizi ‘800. La classica casa/fattoria dove lo spazio più grande era destinato all’abitazione del proprietario; una zona dedicata ai lavori da svolgere; la casa del guardia; la casa del fattore e dei sottofattori, con la piccola parte dedicata al mezzadro. Era presente una cappella con la stanza del prete, dove venivano celebrati matrimoni e battesimi.
Ma arriviamo agli anni ’20 del secolo scorso, con l’acquisto da parte della famiglia Bencini Tesi. Data la predisposizione dei genitori di Rossella -attuale timoniera aziendale- alle cose autentiche e antiche, fu lasciato tutto com’era, o quasi. Pavimenti, arrredi, mobili. Basta percorrere la strada sterrata e arrivare alla fattoria per capire come il tempo, da queste parti, si sia davvero fermato.
I primi imbottigliamenti risalgono alla metà degli anni ’70, in seguito ad un buon periodo di vendita in damigiane, come era solito fare al tempo. Rossella era già inserita in azienda per portare avanti piccoli lavoretti, fin quando non si vide in prima persona, a seguito della scomparsa del padre -1999- a gestire vigna e cantina, con due figlie piccole ed il marito che svolgeva un altro lavoro. Il cambio fu radicale e lungimirante, in quanto trasformò la fattoria da un’agricoltura convenzionale alla biodinamica. Una visionaria per l’epoca -2001- dove tutti volevano dire la propria “gridando”, con etichette dorate in rilievo, vini possenti, paciocconi, figli di un’agricoltura interventista. L’idea di Rossella era il ritorno ad un metodo antico, semplificativo, partendo dal ripescaggio dell’etichetta del nonno: pulita, semplice, vivace. Quello che più interessava era l’espressione dell’uva di questo territorio nel bicchiere, non l’etichetta. Gli anni però passano e l’idea è rimasta forse ancorata al passato, dove il marketing poteva essere lasciato in disparte. Oggi è fondamentale avere una posizione sul mercato stabile, come Fattoria di Bacchereto si meriterebbe, ma purtroppo questi splendidi vini li conoscono in pochi, magari proprio per questo motivo qua. Non avere un sito internet nel 2019 fa pensare, ma tant’è…
Ma cos’ ha portato Rossella ad intraprendere il percorso della biodinamica?
Le ricette date dai vari consulenti che si aggiravano nella fattoria non andavano giù a Rossella. Tali ricette prevedevano di comprare prodotti, oltretutto dannosi, ed usare additivi in cantina i quali andavano a peggiorare il vino, ovattandolo. Non si sentiva suo il lavoro, non riusciva a gestire un’azienda delegata ad altri; per questo, dopo alcuni incontri con un tecnico biologico, capì che la strada giusta era l’opposta di quella fino ad allora percorsa.
Sul “Bio” in quegli anni si parlava poco, non esistevano corsi di formazione o incontri. Era disponibile solamente un corso di ortaggi, che pur dissimile alla viticoltura, riuscì a dare quello spunto mancante necessario a Rossella. Ma anche il bio le stava stretto, i prodotti dannosi erano sostituiti da altri prodotti (non dannosi) ma la mentalità non cambiava. L’incontro con Luca di Napoli del Castello di Rampolla, fu l’inizio della nuova avventura. Proprio grazie a lui, conobbe Leonello Anello, gran conoscitore della materia, il quale permise definitivamente alla vignaiola di dedicarsi interamente a questo stile di vita. I vignaioli nuovi si susseguivano, da Stefano Bellotti a Andrea Zanfei, iniziarono a nascere forti amicizie, un rapporto non di competitività, ma bensì di confronto, di opinioni, di assaggi, di umanità. Ecco che il cerchio si chiuse.
Dal 2008 in supporto a Rossella arriva Marco Vannucci, il vero braccio destro, che con pacatezza e grande sensibilità, riesce a sposare il progetto della vignaiola Toscana, elevando ancora di più i vini della Fattoria di Bacchereto. In cantina si cerca il minore intervento possibile, accompagnando di fatto l’uva nel bicchiere. L’elevage viene effettuato in tonneaux, in modo tale da poter tenere separati i dieci appezzamenti (il più grande conta 1.4 ha). Un unico vino rosso assemblato dopo minuziosi assaggi; le botti che non soddisfano Rossella vengono vendute come vino sfuso dopo ben due anni di legno, vino sfuso!!!
La caparbietà di Rossella nel credere con tutta se stessa sulla strada intrapresa quasi venti anni fa, l’ha portata nella decisione di non mostrare in etichetta il bollino del biologico, pur rientrandoci, non sentendosi parte di questo sistema dove troppo è ammesso.
Assaggiando i vini possiamo capire come la dedizione all’agricoltura, alla pianta, al suolo, alla trasformazione del frutto senza intaccarlo, riesca a regalare vini lucenti, energici, scattosi. Una qualsiasi area vitivinicola che non da importanza a tutto ciò, ha poco o nulla da raccontare ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se l’allora Granduca di Toscana -Cosimo III de’ Medici- insignì Carmignano nel bando come una delle quattro aree migliori per il vino di qualità in Toscana, un motivo doveva pur esserci. Se oggi questo vino non riesce a mostrarsi in tutta la sua interezza, date le enormi potenzialità di questo territorio, un motivo deve pur esserci. La mentalità conservatrice di molti produttori non permette lo sviluppo di un’intera denominazione. Svegliarsi da un lungo letargo potrebbe essere cosa buona e giusta, per Carmignano e per tutto il vino italiano.
I vini di Fattoria di Bacchereto sono puri, genuini, energici. Riescono ad unire complessità e semplicità di beva. Terre a Mano 2015 è lento nel concedersi, timido e diffidente. Una nota di boiserie svanisce immediatamente, trasformando il bicchiere in un cesto di frutta matura, rossa e nera. Eucalipto, salgemma, corteccia. Il sangiovese che gioca un ruolo centrale per tutto l’assaggio, graffiando quanto basta, dai tannini serrati e maturi. La spalla è larga, ma riesce a sfinare in allungo, grazie ad una vena minerale/salata che aumenta a dismisura il sapore.
Sassocarlo 2017 è un inno alla delicatezza. Camomilla, te alla pesca, ginestra. La morbidezza in entrata di questo vino è un esplosione di eleganza, di gusto e di piacere. L’acidità è integrata a meraviglia con la tessitura del vino, accompagnando fino alla deglutizione un sorso di rara bellezza.
La torrida 2011 portò un appassimento di alcuni grappoli in pianta, per cui si decise di uscire con una vendemmia tardiva. Dal cru “Pian de Sorbi” un vino dall’equilibrio pazzesco tra parti dolci e amare, liquirizia e ciliegia, china e tintura di iodio. Un buon allungo e l’invito a riempirsi di nuovo il bicchiere.
Vin Santo 2010 qua il residuo zuccherino è maggiore e lo si sente fin da subito. Ancora davvero molto giovane, le morbidezze devono amalgamarsi alla tessitura del vino. Mi raccomando, i cantuccini inzuppateli da altre parti, non in questo vin santo!