Non ricordo il giorno esatto, mi pare un Lunedì.
A pranzo nell’Ottobre 2018.
Una delle piogge più violente degli ultimi anni, una bufera che fa quasi saltare il pranzo. Noi venivamo da Firenze, un’altra macchina da Carrara. “Ale, qua non vediamo più lontano di due metri, siamo fermi sulla Cisa”! Saranno state le 11.30. A quel pranzo, ormai, non ci speravamo quasi più. Un sussulto poco dopo. “Siamo ripartiti, veniamo piano, ci aggiorniamo più avanti.” Intanto noi arriviamo a San Giovanni in Persiceto (San Zvân) attendendo i malcapitati dalla tempesta. Arrivano. Sorrisi stampati, e con un bel po’ di adrenalina, entriamo nella piccola Osteria.
Un antico registratore di cassa, all’ingresso. Il corridoio, stretto, il quale ci accompagna verso il cuore del locale.
Un caminetto con la brace che arde sullo sfondo.
Vecchie padelle e altri ammennicoli appesi alle pareti.
I tavoli in legno con lunghe tovaglie bianche, i quali man mano si riempiono.
La carne in un grande vassoio, poggiato su di una credenza. Altra carne vicino al fuoco, per temperarsi, prima di essere braciata.
Franco Cimini, cuoco e patron dell’Antica Osteria del Mirasole, fa la spola tra i fornelli e la brace.
In sala il sorridentissimo Riccardo anima un luogo che già di per sé emana calore.
Inutile dire che per andare avanti dobbiamo guardare al passato con idee avanguardiste e tanta competenza; la scelta della materia prima è fondamentale per gettare le basi di una buona cucina.
Qua, al “Mirasole“, queste cose le sanno bene. L’approvvigionamento dei prodotti caseari e delle magnifiche carni proviene dall’Azienda Agricola “Caretti”-a pochi passi dall’Osteria- di proprietà della famiglia della moglie di Franco –Anna– i quali hanno permesso a questo piccolo scrigno di bontà, di ridisegnare una filiera corta, controllata, dove tutto è sano, tutto è genuino. Sapori, profumi, qualità. Ho appena citato Anna, imprescindibile meccanismo del “Mirasole”, la quale gestisce in maniera impeccabile e con molta disinvoltura le piccole sale, fungendo da cordone ombelicale con la cucina.
Un dejavù. Otto Febbraio Duemilaventi.
La giornata era luminosissima, stranamente calda per il periodo.
Quei cartelli toponomastici lungo la strada, in dialetto.
Il paesaggio che cambia non appena si esce dalla tangenziale di Bologna.
Quel caminetto con le fiamme ardite.
Quella carne, sempre lì, in bella mostra.
Ore 13.
Osteria vuota che si riempie di lì a poco. Solito menù dove vorresti prendere tutto e per qualche minuto rimpiangi di non essere nato mucca.
Nella mia comanda non possono mancare i tortellini con la panna d’affioramento, ormai un signature del locale. Piatto che non smetteresti più di mangiare, data l’alta goduriosità e golosità. Sulle altre scelte ho voluto variare rispetto alla scorsa volta. La cipolla dorata con ripieno di fegatini di pollo, con fuori quel formaggio a dare quel quid in più. Micidiali le Lasagne verdi all’ortica col ragù del cortile e panna d’affioramento, sempre lei. Direte voi “una lasagna”. Eh, una lasagna. Qua la zona comfort è vicina, potrebbe scadere nella banalità, ma Franco riesce a rendere qualcosa di semplice complesso, dai sapori decisi, mai sboroni. Questo piatto, pur grezzo che sia, trova una chiusura al limite dell’eleganza. Paglia e fieno tirata molto sottile con un ragù bianco sincero. Il sapore ancestrale della faraona cotta sotto cenere, con quel fondo a dare elevazione di sapore. E poi, le patate fritte nello strutto, che mangeresti ogni mattina per colazione, senonché il medico di famiglia ti redarguisce per gli esami del sangue sballati. Il gelato che sa di crema, quella crema che i bambini, forse, non saprebbero riconoscere più.
Andare al Mirasole non è solo mangiare un piatto.
Andare al Mirasole significa masticare la tradizione del luogo.
Andare al Mirasole significa ripercorrere un lungo periodo storico/culturale della cucina regionale emiliana, finanche italiana.
Andateci, al Mirasole.