Un immenso labirinto fatto di piantine, in vasetto, su asfalto e cemento, oppure uno strato di terra compattata dalle ruspe ricoperto di ghiaino, in quanto le lavorazioni devono permettere la continuità 365 giorni l’anno. Uno spreco di acqua e di suoli immane, avendo una programmazione sistematica tutto l’anno, anche se piove.

Cosa c’entra questo con Val di Buri, vi chiederete..?

C’entra in maniera intrinseca, in quanto Giacomo e Marina, entrambi già facce note nel complesso mondo vino, il primo sul campo, la seconda dietro le quinte, si sono stabiliti nella collina pistoiese -casa natale di Giacomo- da un paio d’anni, per tentare di recuperare un’agricoltura al collasso.

È vero che senza vivaio Pistoia non sarebbe quella che è, ma è anche vero che la situazione è un po’ scappata di mano. Una monocoltura ormai totale.
Questa non è agricoltura!
Un deserto chiamato coltivazione.
Ci può essere anche vita sotto un terreno diserbato, ma qual’è la qualità di questa vita?

Come ci racconta Giacomo, in Toscana, abbiamo cinque comparti critici tra i più inquinati d’Italia, tra cui, appunto, la piana di Pistoia, e l’unico a fare agricoltura di questi cinque è proprio quest’ultima. L’AGRICOLTURA È UNO DEI SETTORI MAGGIORMENTE INQUINANTI A LIVELLO MONDIALE, questo non va dimenticato.

Ma veniamo a noi.

INIZIO DELL’AVVENTURA
Come sono arrivati qua, Giacomo e Marina?
In macchina, scherzano i due coniugi.
Ma nella realtà dei fatti grazie ad un vignaiolo conosciuto quasi per caso, il quale aveva in affitto questa vigna vecchia (3400mq) -a Bugigattoli– “nemmeno sapevo dove fosse fino a poco tempo fa” (Giacomo sorride) dove sono presenti trebbiano, canaiolo e sangiovese, con altre piante miste all’esterno. Non potendo occuparsene di persona è stata affittata ai ragazzi di Val di Buri.

E da qui parte tutto, con meno di mezzo ettaro.

Un lavoro encomiabile di recupero di vecchi vigneti, lasciati a se stessi, in attesa di essere risucchiati dal bosco. Al tempo stesso una filosofia di vita. Si crede nella vita del sottosuolo, nella vita intesa come nascita sana di un’uva che viene accompagnata in cantina e seguita senza mai tramortirla, o dominarla.

Per capire quale sia stato il problema del Montalbano pistoiese rispetto ai confini pratesi, basti pensare a Carmignano, è necessario andare indietro di 40 anni.
I contadini di quest’area vitivinicola non riuscirono ad agganciare il trend della bottiglia, fallendo sotto il profilo della commercializzazione. Questo vuoi perché rimasti legati ad una tradizione di rapporto diretto -vino che si vendeva in damigiana e cisterna- vuoi perchè è mancata quella frattura storica post mezzadri -vedi Chianti- in cui si perse tutto e si dovette ricominciare da capo con i foresti che investirono ed insistirono sui territori senesi e fiorentini. Questo non accadde nelle colline Pistoiesi, perchè, non essendoci stati mezzadri -in collina- i vigneti erano esclusivamente di proprietà, per cui ognuno continuò a fare il proprio mestiere, e non ci furono le condizioni per cui si potesse sviluppare una nuova agricoltura, con idee imprenditoriali nuove. Oggi, purtroppo, questa mancanza pesa. Pesa perchè manca uno storico condivisibile, e parlando con la gente, anche “vicini di casa”, perchè si pensa che qua il vino non si sia mai fatto e non si possa fare.
Se provate a percorrere queste colline vi accorgerete di quante vigne vecchissime ancora insistono, magari dimezzate dalla sua vera capacità iniziale, ma pur sempre in piedi.
Ed è proprio l’obiettivo di Marina e Giacomo, ridare luce ad una zona collinare misconosciuta, sotto il profilo vitivinicolo e culturale.

Sono stupendi i racconti di come abbiano trovato gli appezzamenti, tanti e distanti l’uno dall’altro, per un totale di circa 2 ettari, oggi, ma è l’ultima vigna che fa tremare la voce: si tratta di un vero e proprio “cru” immerso nel bosco.

Vigna del Castelluccio.

La storia di questa vigna è legata alla storia di un signore di anni 85. Giacomo notò questo vigneto da Google Maps; una volta arrivati a Forrottoli, con l’auto, e proseguito per una strada sterrata abbastanza ripida, a piedi, rimasero senza parole per la bellezza di questo anfiteatro naturale. Sempre alla ricerca di informazioni riguardo al proprietario, si misero in macchina ed iniziarono a girare per le colline. Come degli investigatori navigati, trovarono un signore anziano davanti al fontanello della propria casa, e così iniziarono a parlare, scoprendo il tesoro. È lui il proprietario della vigna.
Indigeno di queste colline, faceva vino esclusivamente in damigiana, come storia racconta da queste parti, e lo vendeva in tutta Italia. L’ esempio più compiuto di quei vignaioli di quest’area cosiddetti “invisibili”, ovvero quelli che lavoravano esclusivamente con lo sfuso. Qua, nel Montalbano, si è da sempre praticata la vendita diretta.

Il vigneto si trova immerso nel bosco, per un totale di mezzo ettaro in estensione, piantato nel 1920 con varietà miste, a Gobelet -alberelli bassi- sui 300 metri slm.

Vigna del Castelluccio. Questa foto non rende bene l’idea, ma non siamo potuti entrare al suo interno.

Tornando da dove tutto nasce, in sostanza Val di Buri può fregiarsi di altri due vigneti –vigna nel fosso delle Cavallacce e vigna nel fosso Fao– per un totale di 7 diverse parcelle.

Pochissimo terreno lavorabile, è subito la roccia ad affiorare, grazie ad una grossa frana primitiva che portò giù minerali e marne calcaree. Lo stress idrico, come potere intuire, è dietro l’angolo, e la carenza d’acqua viene combattuta a colpi di camomilla per la maggiore -in estate- ma anche con equiseto ed ortica per ridare un po’ di fiato alla pianta. Giacomo su queste pratiche è molto preparato e conosce a menadito esposizioni e terreni, nonostante sia poco tempo che abbraccia la realtà pistoiese.

Marna di Mormoreto

Chiedo quale sia la zona migliore in cui venga meglio il trebbiano.

Difficile dare una risposta, prosegue Giacomo, in quanto avendo il Trebbiano su tre areali, per di più su tre comuni diversi, con altitudini che variano dai 60 ai 600 metri slm, le maturazioni sono alquanto disomogenee.
Per questo motivo il Trebbiano, oggi per quanto mi riguarda punto focale di Val di Buri, viene prodotto con tre finalità distinte: avendo maturazioni molto diverse come appena accennato -pensare che in alcune zone di vigna è stata trovata uva matura ad Agosto e acerba ad Ottobre- si procede con una preselezione, in cui i grappoli meno convincenti vanno a comporre il “Forabuja”, quelli più acerbi vanno nel rosso “Eco della Valle”, ed i grappoli migliori e tardivi, nella “Bure Bianca”, il vino che più rappresenta l’azienda, perché quello da cui tutto iniziò; per scherzo, sembrava. Difatti le prime bottiglie erano destinate per uso personale e per farle assaggiare agli amici.
Oltre a questi tre vini completa la gamma il rosato “Bure Chiara” a base di canaiolo con un po’ di sangiovese.

Nella minuscola e angusta cantina a Baggio -sotto l’abitazione- assaggiamo due barrique, una di canaiolo ed una di sangiovese, di cui ancora non si sa se e come usciranno.

Non scrivo descrittori e prose poetiche, i vini sono parecchio buoni, incarnano uno stile contadino toscano, con berretto di paglia, mani di lavoro e menti pensanti.
Vini sensazionali sulla tavola con una buona compagnia.
La Bure Bianca 2018 ha molti strati, entra dentro e rimane addosso.