Farsi prendere dall’entusiasmo davanti a bottiglie del genere è un attimo.

Esser consapevoli di avere davanti vini di alcuni tra i migliori produttori al Mondo, nonché alcuni tra i miei preferiti, tutti assieme, può togliere quella leggerezza nella bevuta che quasi sempre mi contraddistingue.

I problemi reali possono essere due: farsi condizionare dal nome oppure il contrario, creare aspettative troppo alte (cit.) non ripagate.

Anche se i vini sono stati accoppiati non mi piacciono le sfide e le classifiche, ma piuttosto il ragionamento su ognuno e la riflessione.

Oggi, come ieri, chi riesce ad unire leggerezza e profondità gustativa ha fatto bingo, mica facile.

A volte ci troviamo di fronte vini talmente leggeri da essere evanescenti, acquosi, vuoti.

Al contrario ci troviamo davanti vini che fanno dello spessore e della pienezza la loro arma migliore, ma che se prendi un coltello gli affetti come un salame.

Si da per scontato che certi vini debbano essere buoni a prescindere da quello che ci troviamo nel bicchiere, questa storia ancora non riesco a capirla. Posso capire alcuni legami o esperienze vissute davanti a certe bottiglie, le quali vanno oltre alla valutazione stessa, ma se non si riesce a captare il vino in quel dato momento, secondo me, è come non averlo bevuto.

Il “Substance” di Selosse è un vino monumentale, meno grosso dei miei precedenti assaggi, sapore, fluidità, mare, carbonica che solletica e tiene il palato sempre in movimento, grande champagne! Degorg.2019
Uno degli champagne, secondo la mia esperienza, con una costanza incredibile è la “La Closerie” di Jerome Prevost, trovo tra vecchie e nuove sboccature un fil rouge da grande vigneron.
Forse uno degli champagne più buoni di Beaufort bevuti dal sottoscritto: rose degorgiato 2012 di fine anni ’90. Chinotto puro, vivo, scintillante, cangiante.

 

 

 

 

 

 

Un plauso a Giulia Negri che col suo chardonnay -questo 2016- sta facendo davvero delle cose super, gestione tra legno e materia impressionanti. Sottotono purtroppo il Sancerre 2010 di Vatan, il quale lo reputo uno dei grandi bianchi del pianeta. Col Mersault 2009 di Coche Dury ho pochissime esperienze, fa molti alti e bassi nel bicchiere ma poi si perde nel nulla.

Sui rossi il livello era davvero molto alto.

Quando ci sono certe bottiglie, alcune rischiano di passare in secondo piano, che se prese da sole ribalterebbero il tavolo.

L’Hermitage 1989 di Chave da lacrime, un soffio, non lo senti ma ti perfora le viscere, un’integrità pazzesca, sono quei vini che non ti fanno capire più niente e tu rimani li imbambolato a cercare di capire da che parte sei girato.
Haute Brion 1989 ancora duro, imponente, ampio, dicono ancora giovane, ma quanto bisogna aspettare per bere un vino?!

Il “Clos de Bèze” 2002 di Prieuré Roch con la sua solita esuberanza aromatica seduce e col suo piglio tattile stordisce.
Accanto a lui un mostro: Rene Engel Vosne-Romanee “Les Brulees” 2002. Unico paragone che mi sovviene con quest’ultimo, ricordando la mega verticale di ormai tre anni fa, è la sua apertura al contrario dei Grand Cru pari annata (Ge e Cv) che dettero tutto nella prima mezz’ora e poi si chiusero a doppia mandata. Vino che sussurra, di una finezza e di una tridimensionalità disarmanti. Infinito.

 

Clos Rougeard “Poyeaux” 2008 sanguigno, carnoso, piccante, allunga centralmente e poi si apre a ventaglio. Bòno!
Il “Brunate” 2010 di Rinaldi venendo dopo i precedenti paga un filo la sua rusticità, marchio di fabbrica, ma con palati così elastici e delicati, ha leggermente sofferto, ma rimane comunque una gran bella bottiglia.

 

Il vino rimane dentro, per sempre.