Ho visitato due volte la casa/cantina di Lucien Aviet. Un salto temporale nel passato, ritagli di giornale tappezzati sulle pareti, una grande bandiera francese che svetta sulle botti di legno, libri e poi bottiglie, sparse. Manifesti che ripercorrono la radicata presenza della famiglia Aviet a Montigny-les-Arsures; insomma, un piccolo museo familiare in pochi metri quadrati.
Meno di cinque minuti di auto sono sufficienti per arrivare a Montigny-les-Arsures, da Arbois, piccolissimo borgo di 250 anime, dove si respira a pieni polmoni la ruralità jurassica.
Michel Gahier, Jacques Puffeney, Lucien Aviet, tre figure chiave di tutto il comparto, dei quali potrete trovare le rispettive cantine nell’arco di poche centinaia di metri, anche se purtroppo Puffeney ha venduto la proprietà a Guillame d’Angerville (conosciuto in Borgogna per aver ereditato il Domaine Marquis d’Angerville) che tradotto in Jurassico prende il nome di Domaine du Pélican.
Rimanendo fermamente convinto che lo Jura è devoto ai vini bianchi, vuoi per cultura, vuoi per storico rintracciabile, è chiaro che ci siano zone più o meno vocate anche per i rossi, e se Pupillin è la capitale del Poulsard, Montigny è sicuramente quella del Trousseau, difatti le migliori interpretazioni provengono proprio da questa sottozona, ricadente comunque sotto la denominazione Arbois.
Ed è proprio “Bacchus”, soprannome storico di Lucien Aviet -di lì “Caveau du Bacchus”- coadiuvato dal figlio
Vincent ormai da quindici anni buoni, a produrre la miglior espressione di quest’uva di tutta la zona
vitivinicola. Mai come negli ultimi anni il padre ha lasciato sperimentare Vincent sulle macerazioni prolungate delle varie parcelle. Ha iniziato qualche anno fa con il “191”-che sta a significare i giorni a contatto con le bucce- per proseguire con i 229, passando per i 334, arrivando addirittura a 401 giorni. Questo potrebbe suscitare, agli occhi degli scettici, smaronamento e storiella trita e ritrita, ma posso garantire che la scelta non segue derive modaiole o stili che vanno al di fuori della regione, anzi, mi sbilancio nel confermare di non aver mai assaggiato dei vini rossi così nitidi, così ben fatti, così pieni di frutto, in tutto lo Jura.
Sono rossi maturi nella tessitura, mai crudi, con un frutto rosso che ridonda nel palato, una fresca balsamicità non indotta da legni, una luminosa progressione che fa del sapore la marcia in più. La buccia si riprende i pigmenti coloranti ceduti inizialmente, per cui il vino non sarà mai carico di colore, oltremodo, a mio avviso, il carattere più rustico del trousseau, viene domato dalla maggiore macerazione, ed ecco che entra in scena il manico.
Le varie cuvèe dei trousseau, oltre ad essere suddivise per giorni di macerazioni, hanno un nome proprio: Ruzard Rosière, Les Bruyères, Marnes Blues, Géologues.
Discorso Savagnin.
Tralasciando il pur sempre ottimo melon, sono tre i savagnin prodotti, tutti legati alla tradizione, ovvero sous voile: Arbois Savagnin, Pep’s de Leonie (solo quando il millesimo lo permette), Vin Jaune. È sempre più difficile trovare cantine che propongono un vin de voile che non sia un Jaune. Oggi la maggior parte dei produttori è orientata sulla produzione di vini con botte colma -ouillè- lasciando di fatto per strada un pezzo di storia jurassica. Il consumatore è poco abituato a trovarsi nel bicchiere un vino ossidato, ma la tridimensionalità che regalano certi vini ce la sognamo in qualsiasi altra parte del globo. Negli ultimi tempi mi sono imbattuto in diverse bottiglie di savagnin della suddetta cantina, e mai e dico mai ho avuto una delusione.
Durante l’ultima visita in cantina, dopo dodici bottiglie stappate tra rossi e bianchi, Vincent sbuca dalla cantina privata con una bottiglia che avrà avuto due dita di polvere, senza etichetta. Non dice niente, apre e serve. Difficile trovare un liquido che si avvicinasse più di quel bicchiere al mare, non solo come acqua salata, ma in tutte le forme che lo abitano. L’ossidazione è un dolce ricordo che abbraccia un frutto ancora polposo, giallo. C’è del cedro candito e del tabacco, c’è anice e fieno essiccato, anche dei fiori, essiccati. Spaventoso nel suo incedere, arrogante -io- quando vado a chiedere un altro bicchiere. Niente note mielose, niente pesantezze e finali di bocca amari, ma energia e progressione. Ma che vino era? Savagnin 1989. Monumento del vino mondiale. Se si fosse chiamato Montrachet ci avrei creduto!
A casa: Duemilasei, duemilaotto, duemiladieci.
Unica cosa che non riesco a ritrovare nei bicchieri sous voile è l’andamento climatico dell’annata. Difficile ipotizzare le sfumature tra millesimo e millesimo, ma ad un certo punto, con vini così energici, così roboanti nel palato, così completi, cosa può fregarmene dell’andamento climatico…?
Vista la completezza e la seria costanza negli anni, non faccio fatica a piazzare Aviet tra i migliori produttori di tutto lo Jura.
Au Revoir…
Aviet è un fenomeno. I suoi Trousseau sono tra i migliori rossi per bevibilità ed originalità (e longevi, ho bevuto da poco un 2006 ancora freschissimo…) e mai dico mai ho assaggiato un suo Savagnin meno che memorabile.
Sono d’accordo. Ha una costanza che in pochi hanno in tutto lo Jura. Adesso con le sperimentazioni del figlio sulle macerazioni più lunghe (parlo dei trousseau) usciranno, a mio modo di vedere, dei capolavori assoluti.