È solamente dal 1627 che la famiglia è proprietaria dello Château de Béru, dopo che i monaci cistercensi riconobbero la grandezza di questo terroir, nel XIII secolo, così da issare il muro che tutt’oggi circonda i 5 ettari della vigna più importante della cantina:
“Clos Béru”. Ieri, praticamente.
Athénaïs, figlia del conte Éric de Béru, il quale ripiantò le vigne e ridiede vita alla cantina “solo” 35 anni fa, è oggi al timone di questa magnifica realtà di Chablis.
Dopo un viaggio in Argentina e l’incontro con alcuni coltivatori di caffè, i quali praticavano biodinamica, Athénaïs decise quale doveva essere il futuro di Château de Béru. Dal 2008 iniziò a mettere in pratica, nei 15 ettari vitati tra il “Clos” e le altre tre vigne, ciò che pensava fosse più giusto per la sua azienda, ricevendo anno dopo anno delle risposte molto positive, sia dalle piante che dai vini.
Il mio rapporto con questa cantina non era iniziato col piede giusto, ma si sa, i vini dobbiamo berli e non assaggiarli ed i grandi amori possono crescere esponenzialmente con il tempo.
Ormai il peso che do ai miei giudizi non può e non deve essere quello di una fiera o quello dove si stappano 67 bottiglie in dieci.
Sicuramente il “Montserre” 2017 (ne fa due, quello con l’etichetta arancione, il sans soufre ajouté, per capirci) è stato uno dei bianchi più intriganti bevuti lo scorso anno.
Questo “Côte aux Prêtres” 2017 -chardonnay 100%- è un’altra cuvée da singola vigna, che letteralmente tradotto significa “Collina dei Sacerdoti”, riferimento ai vicini sentieri seguiti dai pellegrini nel loro cammino verso Santiago de Compostela. Una vigna arroccata sulla sommità della collina di Béru (villaggio) la quale domina il Castello omonimo, costituita dai piccoli ciottoli calcarei del Kimmeridgian, tipici della denominazione, con un’ingente quantità di gusci di ostriche fossili.
Un vino che fa della maturità del frutto un perno centrale, ma a controbattere per rimettere dritta la bevuta è una freschezza marina, dissetante. Diciamo che il vino non si è concesso troppo, inizialmente.
Muto per buona parte del pranzo, e per muto intendo che non profumava quasi di niente, per fortuna concedeva qualche spiraglio al palato, riuscendo a dare un minimo di chiave di lettura, facendo si che non demordessi. Si sentiva la polpa, ma imbrigliata in gabbia.
Lasciato sbollire mezza giornata, ritornato sopra la sera, iniziava a mostrare la sua veste più solare, con toni di fiori d’acacia e propoli, mutando in cedro, sasso spaccato e iodio. Una doppia faccia, un up and down da far girar la testa e non dare punti di riferimento.
Ora vino di mare, ora vino di montagna.
Il sole e la pioggia. Una dinamicità per niente scontata è capace di far svolgere il vino in modo vibrante, martellante.
Mettersi in cantina i vini di Athénaïs de Béru, oggi, potrebbe essere una manna dal cielo, domani.
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